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IL SENSO DELLA VITA ALL'EPOCA DELLO SMART WORKING – II° PARTE

IL SENSO DELLA VITA ALL'EPOCA DELLO SMART WORKING – II° PARTE


7 luglio 2020 | Lavoro e dintorni
IL SENSO DELLA VITA ALL'EPOCA DELLO SMART WORKING – II° PARTE

IL SENSO DELLA VITA ALL’EPOCA DELLO SMART WORKING – II° PARTE

Diretta emanazione di questa latente insoddisfazione è la consapevolezza, per la stragrande maggioranza delle persone, che avere un’occupazione utile dal punto di vista squisitamente sociale sono alla base, o comunque parte integrante, del proprio benessere. Qualcuno ha ipotizzato che solo un compenso monetario più elevato della media, può compensare l’insoddisfazione legata al proprio lavoro. Come una sorta di elogio all’inutilità.

 

C’è da chiedersi, a questo punto, quali sono i motivi reconditi alla base della irrefrenabile corsa all’invenzione del lavoro inutile; visti anche gli effetti negativi che questi ultimi hanno sulla condizione emotiva del lavoratore. Com’è possibile che si tenga in vita un sistema, che rende infelice proprio chi contribuisce a perpetrarne l’esistenza? Le ipotesi, al riguardo sono diverse. In primo luogo ci sono lavori che hanno come fine ultimo la produzione di “mali”. Imprese, infatti, che producono un’oligarchica ricchezza distruggendo una più che democratica sequela di valori per molti.  Le cosiddette “sin industries” ad esempio, operanti in settori come il tabacco, il gioco d’azzardo e non ultimo, quello delle armi. Accanto a queste, ci sono quelle che George Akerlof e Richard Thaler (premi Nobel) hanno denominato “industria della manipolazione e dell’inganno”. Tra i lavori peggiori, se valutati in termini di utilità sociale percepita, ci sono, per esempio, gli addetti alle vendite, al marketing e alle pubbliche relazioni in ambito finanziario e bancario.

 

Il ritorno all’alienazione teorizzata da Marx, è spiegato dalla natura, per così dire, isolata di certe mansioni che il lavoratore è chiamato a svolgere.

In questo senso, tra i lavori più insoddisfacenti ci sono l’assemblatore, l’addetto alla catena di montaggio, l’operatore di macchina. Dei lavori a volte così specializzati, e per questo anche isolati, che precludono il mondo del lavoratore, talvolta, al semplice “bullone”. Si comprende così quanto sia limitato e ripetitivo il proprio orizzonte.

 

 

Da quanto analizzato possiamo trarre alcuni elementi interessanti. In primo luogo, l’esperienza legata alle finalità del proprio lavoro diventa un elemento cardine per il proprio benessere. Sentire di fare parte di un meccanismo di benessere sociale, aiuta l’individuo/lavoratore a sentirsi appagato e di conseguenza, naturalmente, felice.  Da tale benessere ne consegue in rapida successione, la crescita dell’autostima, oltre alla convinzione che fare bene il proprio lavoro, aiuta il sistema stesso, ed altri, a rendersi partecipi di quello stesso circolo virtuoso. Il tutto si traduce in un surplus di produttività.

 

Lo smart working è dunque solo un pretesto per riprendere il dibattito sull’uomo/lavoratore. Un dibattito che di certo non si è esaurito con il positivismo ottocentesco, con le lotte di classe, il boom economico del dopoguerra o il futurismo informatico. Restano dunque le domande, numerose, molte delle quali banali, che richiedono una risposta per un’evoluzione migliore del mondo del lavoro: Davvero serve un’industria dell’azzardo? Davvero dobbiamo continuare a produrre armi e ad esportarle con le metodiche attuali? Davvero nel 2020 ancora non abbiamo imparato l’importanza di una produzione ecosostenibile? Davvero non si riesce ad andare oltre il considerare un semplice numero, il lavoratore? Ecc... ecc... ecc...

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