s

IL SENSO DELLA VITA ALL'EPOCA DELLO SMART WORKING – I° PARTE

IL SENSO DELLA VITA ALL'EPOCA DELLO SMART WORKING – I° PARTE


3 luglio 2020 | Lavoro e dintorni
IL SENSO DELLA VITA ALL'EPOCA DELLO SMART WORKING – I° PARTE

Uno dei “fenomeni” più interessanti, che il lockdown ha messo in mostra è lo smart working. Una tendenza verso la quale siamo proiettati sia da fattori esogeni, come il distanziamento sociale e dall’insostenibilità della mobilità; sia da elementi di indubbia convenienza: come la riduzione dei costi per imprese ed organizzazioni e la maggiore soddisfazione dei lavoratori.

 

Ovviamente la nuova tendenza non può essere assimilata da tutti i settori allo stesso modo, sia per questioni legate al lavoro stesso, alla sua praticità ed efficienza, sia per la “cultura”, diversificata, dei datori di lavoro.

 

Un sondaggio di Egm-Agorà mostra che solo il 40% degli italiani è propenso ad una visione conservatrice dello status quo lavorativo precedente la pandemia. Il restante 60% non chiede unicamente di poter continuare a lavorare, per così dire, da remoto, piuttosto una profonda riformulazione delle dinamiche di lavoro. Chiedono di immaginare le attività, i ruoli, le mansioni con connotati organizzativi completamente diversi, ispirati a quanto di buono lo smart working ha portato.

 

Ciò che si chiedono i lavoratori è se esistono delle alternative ad un sistema lavoro che evidentemente mostrava delle crepe ancor prima dei noti fatti pandemici. Un’evidente sensazione di spreco di tempo e risorse ha iniziato da tempo a pervadere il pensiero del lavoratore comune, costretto all’alienante metodica dello sviluppo quotidiano.

 

La pandemia come esperienza collettiva ha generato un punto di non ritorno, oltre che una crepa che può essere risanata solo ripensando l’insieme dei cocci distrutti.

Il punto fondamentale di tutto il ragionamento è che una gran parte della collettività, e nei fatti, ha irreparabilmente percepito il proprio impegno lavorativo come superfluo, inutile, che non migliora in alcun modo il mondo ed anzi è uno spreco di risorse naturali oltre che umane.

Da ciò ne deriva una perdita del benessere soggettivo sia fisico che mentale, soprattutto per coloro che vorrebbero dare un senso al proprio sforzo lavorativo, contemplando il vecchio adagio per cui il lavoro nobilita l’uomo.

Ovviamente una valutazione oggettiva della reale utilità o inutilità di una performance lavorativa, o più in generale di un lavoro, è piuttosto complessa e senza dubbio difficilmente realizzabile. Ciò non di meno, risulta impossibile evitare di riflettere sul proprio operato e sugli effetti (positivi o negativi) che esso genera. Per quanto soggettive, queste riflessioni sono oggetto di interessanti sondaggi, uno dei quali dimostra che il 41% dei lavoratori inglesi ritengono il proprio lavoro privo di significato e cosa ancora più interessante, di questo 41% solo il 35% riuscirebbe a cambiare lavoro. Sentimento, quest’ultimo, che sarebbe generato da una specie di “sindrome di Stoccolma” nei confronti del proprio lavoro.

 

Per una volta, almeno in questo, in maniera naturale, si realizza una sorta di parità tra i sessi, nella quale non sembra esserci differenza tra uomini e donne circa le riflessioni sopra descritte.  L’insoddisfazione cresce con il crescere del livello culturale e formativo, raggiungendo il picco tra coloro che hanno conseguito titoli di studio di grado elevato.

Commenta questo articolo